“Risanaci Signore, Dio della vita” è il ritornello del salmo responsoriale che esprime il desiderio dell’uomo di liberarsi dal male. Il problema della sofferenza da sempre tormenta l’uomo di ogni tempo e di ogni cultura. La malattia e la sofferenza infatti generano paura e insicurezza e contrastano con il desiderio di assoluto e di stabilità che è in ogni uomo. Anche la Bibbia si fa carico del grido di dolore che sale incessante dalla terra. Il libro di Giobbe è una lunga meditazione sul destino dell’uomo e in particolare sulla presenza e sul significato del dolore; lo spirito umano è alla ricerca ansiosa e tormentata di una spiegazione che possa maggiormente soddisfare il suo anelito alla felicità e alla pace. La prima lettura è il lamento che Giobbe rivolge a Dio per la sua condizione di vita. Giobbe si presenta come un uomo amareggiato dalla delusione e dalla insoddisfazione, un corpo piagato e destinato alla morte, una vita che scorre verso il suo termine senza motivi di speranza e di consolazione. L’istintivo ripudio del dolore si eleva come grido di ribellione a Dio fino a quando Giobbe abitando la sofferenza ed elaborandola da credente scopre che solo Dio si schiera dalla parte dell’essere umano e solo lui è in grado di riscattare la vita umana dal baratro del dolore. Da Giobbe nasce il modello dell’uomo che affrontando la sofferenza da credente trova nel dolore e nella morte di Cristo una risposta credibile e convincente: l’amore vince il dolore e la morte, e Dio, esperto nel trasformare il male in bene, per amore dell’uomo risponde al dolore e alla morte con la risurrezione e la vita.
La guarigione e la vittoria sul male, che la pagina odierna del Vangelo ci propone, sembrano quasi la risposta al grido dell’uomo sofferente. Siamo di fronte ad una giornata tipica della vita di Gesù che si alterna tra la cura dei malati e la preghiera solitaria. La casa di Piretro –nel suo interno per la malattia della suocera come nell’accogliere “la città ammalata riunita davanti alla porta”(Mc 1,33)- diventa la culla dove fiorisce la vita nuova dei discepoli che, guariti dal Signore, si prodigano per estendere sugli altri la salvezza che hanno gratuitamente ricevuto. Gesù guarisce non solo per liberare dal male fisico ma anche per ridonare all’uomo la sua vita di figlio di Dio, in comunione piena con lui. Della suocera di Pietro si dice che guarita subito “li serviva” (Mc 1, 31), ma non è solamente perché ora è in grado di riprendere in pieno le incombenze domestiche. Il verbo greco diakoneo, ‘servire’, è usato poche volte nel Vangelo di Marco e sempre in riferimento a Gesù: in 1, 13 quando si dice che sono gli angeli che lo servono e in 15, 41 quando le donne lo seguono e lo servono. Lo stesso verbo compare anche nell’ammonizione che Gesù fa agli apostoli che discutono sul primato e sul potere: “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore…” (Mc 10, 43). Così la suocera di Pietro, nel suo silenzio, appare come una perfetta discepola, che riconoscendo il dono ricevuto dal Signore, comincia a vivere nella dimensione che è propria di chi vive con Dio e per Dio, cioè il servizio. Anche l’apostolo Paolo nella seconda lettura ci fa capire come il suo ministero può e deve essere compreso in questa logica per essere autenticamente evangelico. Paolo proclama che la sua condizione di apostolo non proviene da alcuna costrizione esterna, ma ha la sua radice nell’amore per gli uomini, amore che gli è stato dato come dono dal Cristo.
L’ultima parte del Vangelo ci parla di Gesù che si ritira a pregare. Questa preghiera solitaria, personale e notturna è la sorgente vitale di Gesù che lo radica nella relazione con colui che l’ha inviato, il Padre. Nella preghiera Gesù trova salde fondamenta al suo agire e operare, abitando l’intimità con colui che è all’origine della sua obbedienza. Così quanto più davanti a lui ci sono le richieste pressanti di un’umanità bisognosa come nella giornata di Cafarnao, tanto più Gesù si ritaglia spazi di dialogo con il Padre. Anche per noi: quanto più la messe del dolore umano ci appare sconfinata e quanto più avvertiamo la sproporzione tra forze e bisogni, tanto più occorre porsi davanti al Padre in umile atteggiamento filiale, perché lui è la radice e la sorgente di amore e di servizio ai fratelli. Solo contemplando lui si diventa capaci di riconoscerlo nel volto del fratello. Solo avendo sperimentato la sua compagnia la si ritrova nelle membra doloranti dell’umanità. Anche a noi oggi forse necessita un cuore che batte per tutti, un’attenzione intelligente, premurosa e amorevole che dimostri come Dio è presente tra noi. E’ certamente uno dei grandi servizi alla vita che, da credenti, possiamo rendere all’umanità che Dio ci dona da amare e da servire.
Sorelle Clarisse S. Micheletto