L’operosità solerte e la vigilanza con la sobrietà sono i richiami di Gesù e di s. Paolo in questa domenica che ormai ci avvicina al termine dell’anno liturgico. L’ammonimento a concepire la vita non come uno spasso piacevole e irresponsabile viene dal Signore che, invece, la intende come un impegno laborioso, un mettere a frutto con ingegnosità i doni ricevuti, a somiglianza di servi cui siano stati affidati dei talenti dal padrone, per farli rendere durante la sua assenza e consegnarne il guadagno al suo ritorno. Ognuno ha ricevuto la sua grazia per il tempo della vita. La quantità dei doni stessi non importa agli occhi di Dio. Egli distribuisce secondo un suo disegno misterioso, ma sempre colmo di amore e di preferenza anche se non ce ne accorgiamo e immediatamente parrebbe il contrario. Se Dio è Padre, nessun uomo è trascurato; nessuno nasce, o è lasciato povero di affetto divino. Solo che noi non abbiamo il criterio giusto per valutare. Basterebbe questa certezza profondamente iscritta nell’anima per trasformarci la vita. Il padrone, al suo ritorno, definisce ‘servo buono e fedele’ sia chi ha raddoppiato i cinque talenti, sia chi ne ha raddoppiati due: giudica il lavoro, l’avvedutezza, l’impegno e dà lo stesso premio. All’uno e all’altro dice: “Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La fedeltà è ricompensata con la gioia stessa del padrone. Dunque non dobbiamo guardare con risentimento o con invidia nessun dono o talento del nostro prossimo, ma semmai solo imitarne l’assidua occupazione. La vita è per tutti un impegno che riceverà la sua valutazione obiettiva da Colui che è il Signore di tutti e al quale spetta di valutare. E’ vero che tra noi di solito non è l’impegno a ricevere elogio e merito, ma il risultato visibile, la quantità e la qualità della resa, senza troppa considerazione dello sforzo; ma l’uomo non è mai un buon giudice e la sua non è la stima che conta veramente e definitivamente. Se uno avesse il coraggio di riferire tutto al giudizio autentico e definitivo del Signore sarebbe profondamente libero e vivrebbe l’esistenza nello spirito dell’attesa e della pace. I doni di Dio però si possono anche lasciare inutilizzati. Nella parabola lo ha fatto chi ha ricevuto un solo talento e si sente chiamare: “Servo malvagio e pigro!”. Il padrone gli toglie anche il talento che aveva conservato e non trafficato, secondo la legge: “A chiunque ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha” e si trova così indicata l’assenza di grazie in chi non le avrà utilizzate nella vita. Il discorso deve farsi molto serio al pensiero dei doni che Cristo ha lasciato alla sua Chiesa: il suo Spirito, la sua Parola, i suoi sacramenti, la sua presenza, la compagnia dei Santi… Sono altrettanti talenti da non abbandonare alla sterilità. Dio si manifesta e si dona anche in relazione all’accoglienza e alla crescita della sua grazia e alla decisione di affidarsi a Lui senza riserva. L’esortazione di s. Paolo della seconda lettura richiama la vigilanza e la sobrietà e paragona la venuta di Gesù a quella di un ladro nel senso dell’impossibilità di prevedere il suo arrivo. Il ladro è l’amico della notte, si avvolge di tenebre. Opposta è la situazione di un cristiano, che è figlio della luce e figlio del giorno e quindi che non dorme nel suo cuore, ma sta sveglio, così da poter vivere l’incontro e non essere sorpreso impreparato. Quelli che vivono del giorno e della luce sono chiamati figli e questa luce è la fede in Cristo; come a motivo della luce si fa giorno così a motivo della fede in Gesù spunta il giorno cioè l’onestà delle azioni.