In queste ultime domeniche il Vangelo di Matteo cerca di mostrarci l’ampiezza e la profondità del cuore umano, così misterioso e così pieno di meraviglie, ma anche di oscurità e ambiguità. Così lo immagina Teresa di Gesù:
«Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni, come molte ve ne sono in cielo.
Del resto, sorelle, se ci pensiamo bene, che cos’è l’anima del giusto se non un paradiso, dove il Signore dice di prendere le sue delizie? […] No, non vi è nulla che possa paragonarsi alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa capacità!» (1M1,1)
È un cuore capace di beatitudine, di cogliere cioè il nucleo di gioia intima, il dono di Dio, che ogni situazione della vita contiene. Di credere che dalla morte possa sprigionarsi la vita, anche quando cessa ogni speranza umana. Capace quindi di contenere lo Spirito e vivere seguendo la sua Voce.
Come ci ricordava il Vangelo di domenica scorsa, tuttavia, il cuore umano porta in sé la possibilità di essere tenebra, di divenire insipiente (Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore…? Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio…Mt 5, 13-15)). Non possiamo nasconderci come nel nostro cuore alberghino i sentimenti che il profeta Isaia (58, 7-10) elencava nella prima lettura di domenica scorsa (Se toglierai di mezzo a te…): l’attitudine a non lasciare spazio agli altri per essere riconosciuti (l’oppressione), a giudicare e condannare (puntare il dito), a sparlare e calunniare (parlare empio). Per fare luce in noi e per camminare verso la Luce e la beatitudine vera è importante non nasconderci queste zone d’ombra, farle emergere, esporle al suo chiarore.
Così il Vangelo di oggi ci viene in aiuto: l’approfondimento e la radicalizzazione della legge operate da Gesù tendono a toccare sul vivo il nostro cuore, a far sì che la sua Parola vi penetri sempre più a fondo e venga a liberarlo. Intende, Gesù, togliere gli ostacoli, prevalentemente interiori, che ci impediscono di seguirlo in pienezza.
Così il “non ucciderai” (v. 21) entra nella profondità dei nostri sentimenti ostili e collerici verso le persone con cui viviamo. L’esteriorità del rito deve cedere il passo al primato della relazione: può essere interrotto per cercare la riconciliazione con il fratello (v.23-24). E siamo invitati a riconoscere il vantaggio di un patteggiamento, fatto di tatto, pazienza e diplomazia, verso i nostri nemici, soprattutto interiori, consapevoli che non si debellano con la violenza (v 25-26).
Come adulterio (v. 27) viene letto ogni desiderio che consapevolmente violi, spezzi o deteriori un legame d’amore, il quale per essere vero necessita di oblatività e pazienza.
L’attenzione ai sentimenti, la raccomandazione alla vigilanza sul cuore che comanda mani e occhi (v. 29-30) è, ancora una volta, il segno di come sia importante conoscere i nostri moti interiori per accoglierli con pace, senza doverli seguire o esserne sopraffatti.
Il parlare dell’uomo (v. 33-37) infine, dev’essere talmente vero e consapevole, proveniente da un cuore autentico, provato nella relazione, da non aver bisogno di giuramenti che ne attestino la genuinità.
Ecco perché nella relazione che ci costituisce nel profondo e quindi anche nella preghiera, che, infine, è uno stile di vita totalmente relazionato, è fondamentale il conoscere se stessi, il proprio cuore. Santa Teresa di Gesù sostiene, per esperienza personale, che la conoscenza di sé è condizione e cammino di preghiera, cioè è sia presupposta, sia favorita dalla relazione di amicizia con Dio.
«La conoscenza di sé e dei propri peccati è il pane che in questo cammino dell’orazione si deve mangiare con tutti i cibi, anche con i più delicati, e senza di esso non ci si può sostenere.» (V 13, 15).