Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». (Gv 9 40-41)
Il lungo racconto evangelico di questa domenica termina con queste parole di Gesù ai farisei che commentano l’episodio del cieco nato da Lui guarito.
Gesù ci sta parlando in sostanza di “fiducia cieca”, quando afferma che se siamo ciechi, se ci sentiamo e consideriamo ciechi, siamo nella verità e questo ci purifica da ogni peccato.
Vede chi sa vedere la propria cecità, la propria incapacità a salvarsi da solo, a discernere sul suo futuro e sul cammino da intraprendere, sul bene da compiere, in breve: a vivere da soli, in un’autodeterminazione che alla fine smarrisce perché snatura!
C’è un credere di vedere e di sapere che in realtà è cecità spirituale, quando diventa rigidità mentale, quando si chiude a qualsiasi possibilità di essere aiutati ed illuminati dall’Alto.
A volte invece ci sono momenti di buio, di notte che risultano luminosi, semplificano e danno chiarezza al nostro cammino. Sono tempi di sofferenza per qualsiasi motivo, fisico, morale, materiela, di solitudine, di desolazione e fallimento, nei quali è più facile raccoglierci e fare il punto della situazione con noi stessi. Sono malattie, ostacoli spirituali posti sulla nostra strada, perché anche in noi «siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,2). Sono momenti di passaggio, di pasqua vera e propria, in cui avviene un incontro in corrispondenza, di solito, alla percezione del nostro limite, alla nostra fragilità. Questa frustrante e dolorosa esperienza ci permette di entrare in noi stessi e, nella ricerca di un motivo, di una spiegazione e di un conforto, fa sì che possiamo con un certo distacco guardarci come se fosse un altro a farlo. Innesca cioè un movimento riflessivo nel quale ci mettiamo davanti a noi stessi quasi “sdoppiandoci” e iniziando ad oltrepassare la stretta misura del nostro io, guadagnando un orizzonte più alto rispetto al nostro abituale punto di vista. Il limite infatti è riconoscibile come tale soltanto grazie ad un oltrepassamento di noi stessi verso l’Altro. Qui ci apriamo alla relazione con Dio e ci disponiamo ad accettarne una dipendenza orientativa, nella quale ci riconosciamo non autosufficienti, ma bisognosi piuttosto di trovare sopra di noi il principio più autentico del nostro camminare. Qui possiamo confessare che siamo indigenti e riconoscere Dio come Colui che con misericordia viene in nostro aiuto. Credere in Lui e abbandonarsi a Lui con una cieca fiducia: questa cecità è la maggior lucidità che ci mette tra le braccia di Dio. La sua Parola, sola, può guarirci, lenire le nostre ferite, dare senso al nostro star male e al nostro non vedere.
Questo è il capovolgimento operato da Chi è «… venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39): colui che si riconosce «nato tutto nei peccati» (Gv 9, 34) può insegnare a chi è accecato dalla sua pretesa di vedere divenuta autoinganno.
Sempre l’evangelista Giovanni infatti ci insegna che: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.» (1 Gv 8,10)
Al Signore «luce del mondo» (Gv 9,5), chiediamo, in questo cammino di quaresima, da poveri viandanti nel buio, di illuminare i nostri occhi, di donarci il collirio (Ap 3,18) buono della speranza e della fiducia!
