La liturgia di questa domenica ci porta a contemplare la natura, una natura particolare che ha per terreno l’uomo, per seminatore Dio e per seme la parola.
La prima lettura mette in rilievo una caratteristica della Parola di Dio: la sua efficacia. Per coloro ai quali si rivolgeva il profeta Isaia questo era particolarmente vero: uomini che lottavano con il deserto e ne conoscevano l’aridità, uomini per i quali la pioggia era sinonimo di vita: dove cade la Parola di Dio germoglia dunque la vita, essa non scivola via mai invano.
Il brano evangelico ci fa fare un passo avanti perfezionando l’affermazione di Isaia.
La parabola del seminatore è l’unica presente in tutti i Sinottici e di cui Gesù stesso ne dà l’interpretazione.
Con questa e le parabole successive Gesù spiega ai discepoli il mistero della sua vita e del Regno di Dio.
Gesù è il seminatore che è uscito a seminare in abbondanza il seme della parola. Lui è anche il seme, noi il terreno. Ma questo seminatore è un seminatore particolare: non sceglie i terreni, non fa preferenze di persone, ma ugualmente getta generosamente con la sua mano sulla strada, su un luogo sassoso, sulle spine e sulla terra buona. Infatti la parabola attira l’attenzione sul lavoro del seminatore – un lavoro abbondante, senza misura, senza paura dello spreco. Egli manifesta la propria improvvida provvidenza spargendo a larghe mani la sua semente su ogni terreno, senza porsi domande, e ancor meno dubbi, circa la capacità del terreno di accogliere la semente e di renderla feconda. Gettare la semente nel terreno è sempre un atto di speranza; spargerla a piene mani è gesto di fiducia; spargerla senza porsi interrogativi circa la qualità del terreno è atto di fiducia illimitata. Così agisce chi vive la certezza che non esiste campo irrimediabilmente sterile, non esiste terreno umano assolutamente infecondo. E dunque bisogna seminare sempre, ovunque e senza risparmio. Importante è seminare nel cuore di chiunque.
Ma come può il seme della Parola portare frutto? Bisogna mettersi di buona lena: ciascuno, scrive san Paolo, riceverà la ricompensa secondo il proprio lavoro (1Cor 3,9). E dava frutto quale il cento, il sessanta il trenta: seminare è per Dio sempre un atto di fede nel seme e nel terreno nell’esercizio della pazienza tipica dell’agricoltore. In media in Palestina un sacco di grano seminato ne dava 7 o 8, al massimo 11 o12. Un sacco ne dà trenta? È un’esagerazione! uno sessanta. È impossibile! uno cento. È un’assurdità!
Un terreno è buono, secondo questa parabola, non in quanto riceve il seme, ma in quanto gli permette di germogliare e di crescere, secondo la vita che porta in sé. Il terreno buono è in realtà quello che ha qualcosa in meno degli altri terreni: non ha impedimenti è vuoto, libero, essenziale. Terra aperta che non oppone resistenza e si lascia fecondare, abitare dalla vita che irrompe e chiede spazio. Tutto ciò che ingombra, arresta la vita, sacrifica la crescita del seme.
Ma accogliere la Parola e comprenderla non è facile: perché parli loro in parabole?, chiedono i discepoli al Maestro. Perché la Parola di Dio seminata e le parabole non rimangano un rebus indecifrabile, ma il frutto che cresce nella nostra vita, bisogna aprire gli orecchi, gli occhi e il cuore al Signore, avvicinarsi e ascoltarlo.
E’ questa accoglienza della Parola che crea un mondo nuovo libero dagli squilibri e lo orienta verso il piano di Dio come ci dice la seconda lettura: “la creazione, infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta –nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”.
Sorelle Clarisse
Monastero S. Micheletto
