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Commento alle letture della XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Pubblicato su 28 Settembre 2017 di Sorelle Clarisse

La liturgia della Parola di questa domenica ci invita alla conversione.

La conversione è un cambiare totalmente direzione: non è decisivo il passato che si ha dietro alle spalle, né l’eredità di male che la società ci carica addosso: è fondamentale la risposta di conversione che la Parola esige. Essa può ribaltare situazioni e non si tratta di un “sì” che segue a un “no”, ma di un “sì” che distrugge il “no” così che davanti a Dio esiste solo il “sì”.

E’ ciò che ci dice Gesù alla fine del brano evangelico: “le prostitute e i pubblicani vi passeranno avanti nel regno di Dio perché essi hanno creduto alla predicazione di Giovanni Battista; voi, invece, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.”

A questa conclusione Gesù arriva dopo aver raccontato una parabola ai sacerdoti e agli anziani del popolo, cioè a coloro che avrebbero dovuto credergli e praticare la giustizia. Ci vengono dunque presentati due figli senza nessuna differenza e quindi entrambi eredi,  ma alla domanda del padre di andare a lavorare nella vigna rispondono in modo diverso. Questo significa che la salvezza è per tutti perché tutti siamo figli e tutti eredi, ma poi c’è la responsabilità di ognuno ad accettarla o meno (cfr. Prima lettura). Il Regno non è di coloro che si credono giusti, ma dei peccatori che credono e fanno penitenza (si pentì). Ciò che Gesù rimprovera ai sacerdoti e agli anziani del popolo è il loro comportamento nei suoi riguardi che ha fatto loro perdere il ruolo che esercitavano nell’ordine della mediazione: il modo in cui vivevano il loro “sì” alla Legge li ha portati a dire “no” al Vangelo. In altri passi del Vangelo Gesù è ancora più duro ed esemplifica: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini: perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci” (cfr. Mt, 23,13); “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito». (Cfr. Lc 11, 46.52).

Il vero cristiano opera invece un’integrazione tra la fede e la vita. Il sì della sua fede diventa il sì della sua vita: la Parola e la confessione delle labbra diventano azione e gesto delle sue mani e del suo operare.

In concreto come fare che ci sia coerenza tra la fede professata e la vita vissuta? Ce lo indica la seconda lettura quando nella seconda parte ci dice di avere gli stessi sentimenti di Cristo: cioè l’unica regola morale da seguire è quella di imitare Cristo che “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. In questo sta il paradosso della vita cristiana: nell’abbassamento sino alla condizione di schiavo di Colui che dona la sua vita sulla croce si manifesta la gloria divina e la croce da infame supplizio diventa trono di gloria.

 

Sorelle Clarisse

Monastero S. Micheletto

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